Gli ultras di piazza Taksim e l’antiquata concezione del tifo come oppio dei popoli


di Carlo Maria Miele

C’è qualcosa di parecchio rilevante nella massiccia presenza degli ultras nelle rivolte che a partire dallo scorso 31 maggio hanno coinvolto Istanbul.

Con le ovvie e sensibili differenze dettate dal contesto in cui hanno avuto luogo, la partecipazione degli ultras nelle manifestazioni di piazza in Turchia, e in precedenza in quelle in Egitto, segnano (o per meglio dire confermano) una realtà non più considerabile episodica.

In Europa la presenza di frange del tifo organizzato si era già avuta a Genova, nel 2001, e si è ripetuta nel corso di diverse manifestazioni no-global del decennio passato. In Egitto, all’inizio del 2011, questa presenza si è fatta più massiccia ed evidente, finendo per diventare un tema di indagine per giornalisti e sociologi, spesso colti alla sprovvista dal fenomeno. Ma è solo in Turchia che il ruolo degli ultras in piazza acquista una centralità senza precedenti.

Come rilevato da diversi osservatori, la partecipazione di supporter di Besiktas, Fenerbahce e Galatasaray, le tre principali squadre di Istanbul, è stata evidente da subito e ha avuto poco di estemporaneo. Al contrario di quanto avvenuto in Egitto, dove i supporter di Al-Ahly e Zamalek, i due principali club cittadini, hanno marciato a lungo separati e separatamente hanno fronteggiato la polizia, in Turchia da subito i diversi gruppi – tra cui pure esiste una vecchia e marcata rivalità (assimilabile a quella esistente in Italia tra Roma e Lazio) – hanno scelto di coordinarsi e di costituire un fronte unico, simbolicamente rappresentato dall’insegna “Istanbul United”, chiedendo le dimissioni del premier Recep Tayyip Erdogan.

TurkUltUnite - Copia

Al loro interno sarebbe stato decisivo il ruolo di iniziativa e coordinamento giocato dalla frangia più politicizzata dei fan del Besiktas, gli ultras Çarşı, la cui connotazione politica (anarchica) è nota da sempre.

Fatto sta che i supporter delle tre squadre cittadine hanno contribuito attivamente alla resistenza in piazza, ergendo barricate, rispondendo alle cariche della polizia e al lancio di lacrimogeni.

Rispetto a larga parte dei manifestanti, gli ultras hanno potuto far valere la maggiore esperienza accumulata in anni di scontri con le forze dell’ordine. Come ha rilevato Bagis Erten, reporter sportivo per diversi network televisivi turchi, “sono abituati a combattere regolarmente. Il loro arrivo ha sollevato il morale dei manifestanti e hanno giocato un ruolo guida nelle poteste”.

Sabato scorso, a una settimana dall’inizio delle proteste, gli ultras hanno convocato la manifestazione di piazza Taksim. Il raduno, uno dei più grandi tenuti dall’inizio della protesta, si è concluso con l’occupazione del tetto del Centro Culturale Atatürk (Akm), da cui gli ultras hanno lanciato razzi e fumogeni creando un vero e proprio spettacolo pirotecnico.

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Quanto avvenuto negli ultimi 15 giorni in Turchia, e nelle precedenti esperienze analoghe in Europa e in Nord Africa, crea insomma un precedente di cui non sarà possibile non tenere conto.

Il paradosso è che fino ad oggi diversi governi autoritari hanno scelto di assecondare il fenomeno ultras, utilizzando gli stadi come valvola di sfogo per le frustrazioni delle generazioni giovani o meno giovani, facendone uno spazio di relativa libertà rispetto ad altri luoghi di aggregazione. Ciò che non era possibile fare o urlare per strada veniva invece tollerato all’interno delle strutture sportive. Le curve diventavano degli incubatori del dissenso funzionali alla conservazione del potere.

Gli sviluppi degli ultimi giorni mettono in crisi questo approccio, visto che proprio dagli stadi, sempre più spesso, viene uno dei soggetti politici più attivi e potenzialmente pericolosi per chi vuole mantenere lo status quo.

Di pari passo la partecipazione attiva degli ultras alle proteste mette in crisi la sociologia spicciola che finora a questo modo di intendere il mondo delle curve ha fatto da supporto  ideologico. Ossia l’idea che il tifo rappresenti un modo utile per distogliere l’attenzione dai problemi reali, per convogliare energie potenzialmente pericolose verso il nulla. In altri termini la visione di un tifo che – con l’affievolirsi della portata globale della religione – diventa il moderno oppio dei popoli.

D’ora in avanti portare avanti le stesse tesi sarà più difficile. È per molti governi sarà anche più pericoloso.

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